In quella occasione, il tunisino era stato identificato come scafista e poi rimpatriato. Fino a ieri l’uomo era a piede libero ed era al Centro d’accoglienza di Lampedusa insieme con i sopravvissuti, adesso è indagato anche per naufragio e omicidio volontario plurimo. Alcuni sopravvissuti alla strage hanno riferito agli investigatori che Ben Salem era tra gli organizzatori del viaggio e che si era occupato, sin dalle prime battute, di trasferire i 500 eritrei raccolti in un capannone nelle campagne libiche, fino alla spiaggia vicino Misurata.
Quegli eritrei chiamavano Ben Salem “White Man”, perché l’unico non di colore sul barcone. Insieme a un complice, sembra anch’egli tunisino, Ben Salem era l’unico a dormire al riparo, nella cuccetta del barcone, mentre tutti gli altri erano ammassati in coperta, gli uni sugli altri, bambini compresi. Tra i testimoni c’è anche chi afferma di aver visto Ben Salem innescare l’incendio a bordo da cui è scaturita la tragedia. “Non l’ho visto dare fuoco – racconta un etiope -, ma ho sentito dire da molte persone che era stato lui involontariamente a dare fuoco al ponte dell’imbarcazione”.
Sono state sei testimonianze, in particolare, a tracciare il profilo e le responsabilità del “capitano”, che nel racconto di cinque eritrei e di un etiope superstiti della strage risulta a tutti gli effetti membro dell’organizzazione di trafficanti di esseri umani che ha gestito un viaggio per il quale, secondo quanto raccontato dai superstiti, ognuno dei circa cinquecento profughi a bordo ha pagato dai mille fino a quasi 5mila dollari. Gli scafisti non erano armati, ma sorveglianti in armi vigilavano durante l’imbarco, circostanza che rafforza nella Procura la convinzione su una organizzazione dietro i viaggi degli immigrati verso Lampedusa.
L’idea di una gestione organizzata e criminale risulta chiara nel racconto reso da uno dei sopravvissuti sul come è arrivato a imbarcarsi. “Ho vissuto per due anni a Tripoli da alcuni parenti. Ad un certo momento, ho raccolto il denaro per pagare il viaggio in Italia per me, mia cugina e mia zia. Ho contattato un intermediario di nome Ermiyas, di nazionalità etiope, al quale ho consegnato 4.800 dollari”.
“In seguito – prosegue il testimone -, accompagnato in auto da alcuni libici vicini ad Ermiyas, siamo stati condotti in un centro di raccolta a disposizione dell’organizzazione libica. Lì, raccolti in circa 500, siamo stati circa due settimane. Successivamente ci hanno fatti salire su un camion militare, dotato di un cassone chiuso e, a gruppi di circa 100/120 persone, ci hanno portato su una spiaggia, dopo un viaggio durato circa un’ora e mezza. Qui ci hanno fatto incolonnare a grossi gruppi e con delle piccole imbarcazioni siamo arrivati, dopo circa un’ora di viaggio, presso il grosso peschereccio che ci ha condotti in Italia”.
Questo il racconto di un altro sopravvissuto, l’eritreo Aregai Mehari, 37 anni. “Siamo partiti il 2 ottobre verso le 3 del mattino insieme a tre miei cugini dalla costa della città di Misuraca in Libia, a bordo di un peschereccio sul quale erano stipati circa 500 migranti.
Io ho viaggiato nella zona intermedia dell’imbarcazione. Per l’organizzazione del viaggio ho contattato un soggetto a nome Abrahm di nazionalità sudanese, al quale ho pagato la somma di 3.400 dollari. Grazie a questa organizzazione, sono partito dal Sudan e sono arrivato a Tripoli dove ho atteso circa due settimane prima di partire. L’imbarcazione aveva un capitano, un assistente e altri soggetti che ogni tanto ho notato che aiutavano nella conduzione dell’imbarcazione”.